Ci sono cascato un’altra volta! Bisogna fare sempre fact-checking, cioè la verifica dei fatti.
Una delle cose che mi entusiasmano nello studio delle origini e della storia della psicologia è scoprire l’incredibile numero di eccellenti menti enciclopediche di cui l’800 e il ‘900 sono stati ricchi. Personaggi incredibili, con una capacità di intuizione, studio, memorizzazione, motivazione alla ricerca, curiosità, collegamento tra discipline diverse, davvero, per me, fonte di meraviglia. Studiosi di discipline diversissime, biologi, zoologi, fisiologi e molto altro, che non si fermavano davanti a nessun preconcetto, che sperimentavano all’infinito per scoprire cose sempre nuove sul funzionamento dell’uomo in termini di processi mentali, del sistema nervoso centrale, del cervello, del comportamento. Insomma, per me dei geni affascinanti.
Una delle loro caratteristiche era quella di confrontarsi, spesso duramente, sia sulle riviste scientifiche che di persona, confutando le teorie anche dei propri maestri alla luce di nuove scoperte. Uno di questi, un certo Herbert Spencer Jennings, zoologo e non solo, ha smontato una delle mie convinzioni sulle relazioni umane che avevo preso per buona senza approfondire, poiché chi lo disse era una voce per me autorevole.
Fino a ieri avevo creduto che la natura intrinseca, uno degli istinti degli esseri viventi che non si fanno “ingannare” dalla mente e dal pensiero, fosse quella di essere attratti, muoversi verso ciò che dà loro nutrimento, e scappare, allontanarsi da ciò che rappresenta una minaccia o un pericolo. Per dimostrare questo vengono prese come esempio le amebe, gli esseri viventi unicellulari ritenuti, erroneamente, più semplici e meno evoluti: sperimentalmente, il ricercatore sottopone all’ameba del nutrimento ed essa ne è attratta, va verso di esso; al contrario, sottoponendo l’ameba ad un pericolo di sofferenza o morte, essa si allontana. Questo mi aveva indotto a pensare che l’ameba sia più “intelligente” dell’essere umano, che, povero, si fa fregare, appunto, dalla mente e dal pensiero che, in qualche modo, influenzato dall’esterno o dai propri meccanismi interiori inconsapevoli, lo allontanano, separano, anestetizzano alla comprensione dei propri bisogni più veri, più autentici e profondi.
Beh, Jennings con infinite prove di laboratorio ha dimostrato che questo assunto è errato e va rivisto, per tre ragioni principali:
1) innanzitutto sfata il mito “sei come un’ameba” inteso come insulto verso persone che sono passive di fronte agli eventi, o comunque non hanno stimoli; Jennings mostra che le amebe anche in stato di apparente quiescenza, quando l’ambiente viene mantenuto estremamente costante e stabile, mostrano un’attività spontanea, anche senza alcuna stimolazione;
2) la reazione di un organismo a uno stimolo non può essere compresa senza un riferimento allo stato interno dell’organismo, oggi chiamato stato motivazionale, e in questo ci sono un insieme di “motivazioni” non solo il bisogno di nutrimento, ma anche altri bisogni, per esempio la riproduzione, che potrebbero fare scegliere all’ameba il minore dei mali, per esempio andare verso ciò che genera una parte di sofferenza, se funzionale appunto, alla riproduzione. Cosa confermata anche da altri esseri viventi che a fini riproduttivi scelgono di morire (mantidi e non solo);
3) le variazioni di stato interno dell’animale possono dipendere da diversi fattori, non solo se ha fame o non ce l’ha. Innanzitutto quando viene sottoposto allo stimolo, quanti altri stimoli sono presenti in quel momento nell’ambiente dell’animale? Invece che mangiare potrebbe scegliere di scappare, o occuparsi dei piccoli, se sentisse un pericolo. Poi, precedentemente quante volte l’ameba è stata sottoposta allo stesso stimolo? Jennings ha dimostrato sperimentalmente che ripetere molte volte lo stesso identico stimolo produce nell’ameba una forma tipica di apprendimento che oggi viene chiamata “abituazione”, una forma di assuefazione che fa sì che essa risponda automaticamente allo stimolo stesso, indipendentemente che abbia fame, sete, o meno.
Questo, riportato agli esseri umani, mi fa comprendere molto meglio come mai anche nel momento in cui la persona diviene consapevole del proprio autentico bisogno, essere amata, vista, riconosciuta, posso scegliere di restare in una relazione che le fa male: per abitudine e assuefazione.
Quindi cosa serve per uscirne?
Comprendere qual è la motivazione, il bisogno, più alti nella scala potrebbe non bastare; è necessario a piccolissimi passi costruire nuove modalità di comportamento che, nel tempo, portino ad una esperienza emotiva correttiva, in modo tale che l’individuo possa comprendere che può ottenere il soddisfacimento dei propri bisogni in maniera efficace senza la parte di sofferenza.
Potrebbe essere un lungo cammino, ma, del resto, cosa abbiamo di meglio da fare?
Carlo
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