Penso quindi sono, ma anche no.

4 Agosto 2021

Penso quindi sono, ma anche no…

Due delle domande che più mi affascinano dell’evoluzione personale è: come mai penso ciò che penso e come mai è così difficile cambiare il mio modo di pensare? La maggior parte delle persone neppure si pone queste domande  che, al contrario, nel mondo greco o in oriente erano il centro della crescita di una persona; molto più complicato nella cultura occidentale che, come un virus, si sta diffondendo a livello planetario con i suoi lustrini e luccichii che attirano come il miele attira le api per poi accorgersi, se va bene, che era tutto un enorme “pacco” al quale si sacrifica la vita intera. Le prime difficoltà che personalmente ho trovato per rispondere a quelle domande  sono state: accorgermi che sto pensando, cose per niente scontate, sia il pensare che accorgermi che lo sto facendo.

E questa è già una bella sfida, accorgersi dei propri pensieri.

Dopodichè, quel pensiero, qualunque esso sia, da dove nasce? Beh, da un punto di vista fisiologico esso nasce in quel complicato labirinto che è il cervello, tutta una serie di complessi eventi elettrici fanno sì che si generi il pensiero; quindi la forma fisica del nostro cervello, come è fatto, dimensioni, numero di reti neuronali, come è posizionato dentro alla testa, modificano il nostro modo di pensare e, siccome ogni volta che pensiamo a qualsiasi cosa c’è un rilascio di neurotrasmettitori da parte del cervello, quei messaggeri chimici che gli permettono di comunicare con il resto del corpo o con altre parti del sistema nervoso, recenti studi hanno dimostrato che ogni pensiero comporta dei cambiamenti neurochimici, alcuni dei quali sono solo temporanei mentre altri sono più duraturi, possiamo dire che il nostro modo di pensare modella il nostro cervello.

Poi c’è un aspetto altrettanto fondamentale che è l’ambiente, fisico ed emotivo, nel quale siamo stati concepiti, venuti al mondo e cresciuti (leggere Giuliana Mieli “Il bambino non è un elettrodomestico”). Per queste due motivazioni molti ricercatori (H. Monyer e altri) e anche le discipline orientali, affermano che “Il mondo appare alla nostra mente non nella sua realtà, ma in ciò che il cervello “trasmette” al nostro io, elaborando i dati degli organi di senso e coinvolgendoli dentro le aree cerebrali.”, in altre parole le mie convinzioni, tutto ciò che so, tutto ciò che penso, in realtà è accaduto nella mia mente. Le convinzioni non sono altro che  il risultato di continue ripetizioni di certe informazioni. Ne consegue che le mie opinioni, credenze e convinzioni sono strettamente legate a questi due aspetti, bio-fisiologico e ambientale, che sono composti da tutto il mio vissuto che, come in una clessidra, granello dopo granello crea la mia storia. Ovvio? Mica tanto, perchè se lo fosse sarebbe chiaro che l’altro pensa diversamente da me perchè ha una sua storia diversa dalla mia, così avremmo finito con i conflitti e vivremmo in una specie di Eden (ognuno metta il suo); ma così non è, quindi c’è strada da fare. Gli ambienti in cui sono cresciuto sono tanti: famiglia, scuola, relazioni, esperienze, contesto socio-culturale, essi fanno sì che io penso ciò che penso e credo in ciò che credo, poco da fare su questo punto. Paramahansa Yogananda diceva che “l’ambiente è sempre più forte, fino a quando non divieni pienamente consapevole di te stesso” aggiungo io “in quei 20/30 anni di lavoro personale” 🙂

Quindi, io credo davvero in ciò che penso? Certamente sì. Ma se le informazioni ricevute fossero errate o incomplete? La Storia umana è piena di esempi di questo genere, pienissima! Qual è la sfida più grande per evolvere come persone? Mettere in discussione ciò che penso su qualsiasi argomento! E come mai è la sfida più grande? Perchè questo significherebbe mettere in discussione tutto di me, tra cui la mia “identità” alla quale sono attaccato come due dita quando apro il tubetto dell’attack e cade la goccina! Senza sapere che, come ricorda bene Umberto Galimberti, ma non solo, l’identità non è una dote naturale, ma un dono sociale, ce la danno gli altri ed è frutto del riconoscimento; lui fa un esempio semplicissimo: il genitore che dice in continuazione al bambino che è uno stupido, poi lo dice la maestra, per risonanza lo dicono i compagni di classe, egli si creerà un’identità “negativa” alla quale aderirà, così gli verrà assegnato l’insegnante di sostegno, si convincerà di non essere capace e si appoggerà all’insegnante o a chiunque si ponga da tutor fino a quando non arriverà quello più forte che fa da tutor a tutti e nascerà una fantastica dittatura.

Questo vale per i bambini e per gli adulti, i quali, per esempio, vanno a lavorare e dove collocano la loro identità? La collocano nel ruolo, e quando il loro ruolo aumenta nel senso che salgono in una posizione sociale più significativa hanno un incremento della loro identità, quando sono messi da parte hanno un decremento con conseguente depressione e svalutazione di sè. Aristotele diceva “Se uno entra da solo in una città e pensa di poter fare a meno degli altri, o è bestia o è Dio” e a proposito di Dio dice “non sappiamo se è felice perchè è monakòs, è solo.”

Ricordo perfettamente quando persi il mio lavoro come responsabile vendite Italia, entrai in uno stato depressivo molto profondo, trascorsi circa tre mesi passando dal letto al divano e dal divano al letto guardando il soffitto tutto il giorno. In quel momento non esistevo più in quanto avevo perso l’identità alla quale una parte di me bisognosa di riconoscimento aveva aderito per molti anni. Fortunatamente arrivò la malattia a risvegliare la parte autentica, più profonda di me e ricordarmi che io non sono quell’identità alla quale avevo aderito, ma molto, molto altro. Per questo è così difficile cambiare il proprio modo di pensare, perchè c’è a rischio la propria identità. E ognuno ha la propria, che corrisponde, come ci ricorda Galimberti, al ruolo che ricopre: mamma, papà, figli*, fratello, sorella, studente, professore, insegnante, medic*, paziente, ingegnere, brav* ragazz*, quell* che crede di sapere tutto/niente. E nell’identità, sono racchiuse in diversi strati di profondità tutte le mie opinioni, credenze, convinzioni.

La mente che studia se stessa è capace di comprendere come “emerge” dal cervello, dal momento che è lei stessa a condurre l’indagine? No fino a quando non giunge uno stimolo interno forte che la induca a intraprendere un percorso di autoconoscenza che, come la clessidra, granello dopo granello la porterà ad una nuova consapevolezza di sè e, di conseguenza, del mondo, che gli riconoscerà una identità sempre nuova e via via più vicina alla propria autenticità.

Un abbraccio.

Carlo

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